La città di Rafah è stata nuovamente oggetto di un’incursione militare da parte di Israele, che aggrava ancora di più la situazione nella Striscia di Gaza, ormai al collasso. E se gli Stati Uniti hanno annunciato il blocco dell’invio di armi per tentare di scongiurare il peggio, la chiusura dei valichi per gli aiuti umanitari rende ancor più drammatica la situazione. A fotografarci cosa sta accadendo è Flavia Pugliese, direttrice regionale per il Medio Oriente dell’ong WeWorld, che ci fornisce anche dati sulla tragica quotidianità palestinese.

Le condizioni della popolazione palestinese a Gaza e in una Rafah assediata

«Oggi la situazione a Gaza è tragica: parliamo di 35mila vittime palestinesi e di 75mila feriti», spiega Pugliese raccontando di una terra distrutta. La criticità più grande sta nelle restrizioni imposte a beni e persone dentro e fuori da Gaza. Prima della guerra la popolazione palestinese, composta da 1 milione e 700mila persone, era distribuita in tre grandi zone urbane: quella di Gaza city, di Khan Yunis e di Rafah. Oggi, con il 60% degli edifici ad uso abitativo distrutti, ad un milione e mezzo di persone non resta che vivere in campi tendati lungo la spiaggia e in condizioni a dir poco precarie, in rifugi allestiti in scuole o spazi pubblici. L’altro fattore incredibilmente problematico, soprattutto alla luce di quest’ultima incursione, riguarda proprio il fatto che l’80% della popolazione è scappata da Gaza a Rafah, la zona che in questi mesi è stata ritenuta più sicura. 

«Con l’80% delle strutture commerciali non operative e i molteplici blocchi e restrizioni di Israele all’accesso ai beni di prima necessità la situazione è ancora più grave», continua Pugliese. A Gaza oggi ogni persona dispone di massimo uno o due litri di acqua potabile al giorno. Manca il cibo, mancano verdure e alimenti freschi: come immediata conseguenza il livello di denutrizione è altissimo e la dieta estremamente povera. Senza contare che 26 ospedali sono stati distrutti
«Le conseguenze sociali di questa situazione sono fortissime, perché l’80% degli edifici scolastici è andato distrutto e ora 625mila bambini sono fuori dal sistema scolastico. In tale contesto, le donne, gli anziani, i bambini e le persone con disabilità vivono le conseguenze più severe: le donne spesso sono esposte ad abusi e 17mila bambini sono stati separati dalle loro famiglie. Su un milione e 700mila sfollati, un milione sono bambini che necessitano di supporto psicologico per tentare di elaborare una routine di vita completamente spezzata. Si tratta di un contesto in cui mancano anche medicine e medici, quindi ovviamente la popolazione anziana è più a rischio».

Entrando nel merito dell’operazione militare di Rafah, Pugliese racconta che le forze militari israeliane hanno chiesto alla popolazione lì presente, già rifugiata, di spostarsi verso la zona umanitaria di al-Mawasi. L’evacuazione di massa avrà un impatto su almeno 100mila persone e non potrà avvenire in sicurezza: altre famiglie verrano separate, aumenterà il numero degli sfollati. La popolazione che dovrà evacuare da Rafah si è già spostata sei o sette volte, attraversando infrastrutture distrutte e strade disseminate di mine e ordigni.
Soprattutto, ricorda la direttrice regionale di We World, «non esiste un solo posto sicuro in tutta Gaza. Il concetto di “zona sicura” è inesistente perché le zone disegnate come tali sono state prese di mira durante le operazioni militari che sono in fase di esecuzione».

Il transito degli aiuti umanitari è completamente controllato da Israele, persino i valichi sicuri – i cosiddetti crossing points – sono in mano ai soldati che decidono arbitrariamente tempi e modi per aprirli e chiuderli. Questo non permette la fornitura nemmeno di un minimo supporto umanitario.
«Al momento ci sono decine di camion pieni di aiuti in attesa di essere scaricati, ma se passeranno non si saprà nemmeno se basteranno. La situazione in cui i nostri operatori e tutti gli operatori umanitari in generale si trovano a lavorare è veramente grave» conclude Pugliese.

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